Sì lo so ci ho messo una vita a leggere questo Mal di Torino di Fabrizio Vespa, edito da espress. All’apparenza volumetto innocuo, in realtà si prende tempo e chiede lentezza.
Non so se soffro del mal di Torino. Quel che è certo è che il libro isola in maniera eccellente concetti verissimi, nel bene e nel male. C’è il pudore, l’essere burberi e il definirsi “gente che produce cose”. C’è la concretezza dello stare coi piedi per terra, che può diventare critica feroce nei confronti di chi è ambizioso. C’è l’eterno understatement che porta, nel suo lato negativo, a sottovalutare le unicità (come il Monviso nel logo Paramount, lo sapevate?). C’è la sensazione da Terra di Mezzo, quella che sì non siamo più città operaia però dai anche se vengono ad ascoltarmi da mezzo Mondo posso mica dire ai miei che faccio il musicista jazz.
La scrittura è densa e ben articolata: mi piacciono gli autori che non sprecano le parole, ma le selezionano con cura. Un plauso all’autore, poi, perché è riuscito a estrapolare atteggiamenti precisi e a renderli comprensibili senza scadere in stereotipi da Vuole una meeeeeenta.
Mi è piaciuta la scelta di inframezzare le interviste (10, a personaggi made in sabaudaland come Casacci, Della Casa, Salza, Marconetto, Gambarotta) a belle illustrazioni e lettere di Cesare Lombroso alla figlia. Quelle lettere sono una vera chicca da fineurs. La mia preferita include una frase significativa: “Torino è una vedova indecisa che aspetta istruzioni”. Mi sono piaciuti meno, invece, i riferimenti a concetti astratti come il sogno o il mito della fenice.
Questo, per me, è il genere di libro che finisci di leggere, sistemi in libreria e poi pensi Aspetta un attimo, ma davvero qui hanno vissuto Kerouac e Ginsberg? Davvero Hitchcock ha visitato la Fiat? Ecco lo sapevo, sono proprio di Torino 🙂