Nel 2021 sono rimasta disoccupata e con la pandemia la stessa sorte è capitata a molte altre donne.
Al netto del privilegio che vivo (non mi sono ritrovata senza un tetto sulla testa con mia figlia, ho una relazione sana con un uomo che mi rispetta, ho una situazione economica non milionaria ma stabile) perdere il lavoro non per propria scelta è un grande shock per chi non ha mai impostato i propri obiettivi di vita sull’essere “solo” madre e moglie.
Mi esprimo con le dovute virgolette perché non c’è giudizio nei confronti di una scelta diversa dalla mia, o nulla di sbagliato. Solo che se sei una femminista sin dai tempi del liceo, hai preso una laurea e un master e hai sempre apprezzato il tuo lavoro, allora la disoccupazione somiglia molto ad un limbo di identità.
Sono ancora una femminista se non lavoro più? Voglio tornare a lavorare come prima? E se no, che esempio sto dando alla figlia che mi guarda ogni giorno? E poi: chi sono io adesso, senza più il mio lavoro? Sono una disoccupata in cerca di impiego? O una casalinga modello serie tv? Tra tutte queste domande, negli interstizi tra pressioni sociali, crisi economica e femminismo pragmatico, c’ero io.
Così mi sono rimessa a studiare. Storia del femminismo, sin dall’ Unità, in Italia e nello specifico a Torino e in Piemonte. Parlo di figure di spicco come Noce, Malan, Noya e Mariani ma anche storie di semplicità quotidiana che difficilmente hanno raggiunto libri e giornali. Ho studiato la storia dei consultori autogestiti, della Casa delle Donne, dell’Intercategoriale sindacale. Mi sono rimessa a leggere testi cardine del movimento in tutto il Mondo: De Beauvoir, Wolf, Friedan, Solnit, fino a Penny, Eltahawy, Moran.
Adesso so che voglio fare questa cosa qua. Studiare le storie e farle conoscere a chi avrà voglia di seguirmi. E so che là fuori ci sono altre donne come me, che forse hanno voglia di parlarne e scoprire.
La mia generazione di femministe è abituata a parlare di temi quali sessualità, attivismo e libertà di scelta sul proprio corpo, ed è stato splendido ripercorrere a ritroso la marcia che ci ha condotte sin qui, a oggi. Alcune osservazioni, in particolare, hanno preso casa nella mia testa.
Le donne stesse accettano di considerarsi “seconde” se chi le convince sembra loro meritare la stima del genere umano: Marx, Lenin, Freud e tutti gli altri.
Le donne sono persuase fin dall’infanzia a non prendere decisioni e a dipendere da persona “capace” o “responsabile”.
Chi genera non ha la facoltà di attribuire ai figli il proprio nome: il diritto della donna è stato ambito da altri di cui è diventato il privilegio.
La dialettica servo-padrone è una regolazione di conti tra collettivi di uomini.
La parità di retribuzione è un nostro diritto, ma la nostra oppressione è un’altra cosa. Ci basta la parità salariale quando abbiamo già sulle spalle ore di lavoro domestico?
Non salterà il Mondo se l’uomo non avrà più l’equilibrio psicologico basato sulla nostra sottomissione.
La donna clitoridea, affermando una sessualità in proprio il cui funzionamento non coincide con la stimolazione del pene, abbandona il pene a sé stesso.
L’interdizione all’autoerotismo ha colpito duramente la donna perché l’ha consegnata inesperta e colpevolizzata al mito dell’orgasmo vaginale che per lei è diventato “il sesso”.
Ecco sono sicura che leggendo queste parole a ciascuna sarà venuto in mente almeno un episodio. Se non due o più. Questa è la prima caratteristica di un libro intramontabile: irradia luce a prescindere dall’era in cui viene letto.
Avete presente quando leggete una quote di qualche scrittrice, o di un personaggio storico? Provate come un senso di appagamento, perché in quella citazione da poche parole è riassunto efficacemente un concetto complesso. Nonostante le due tre righe, il sentimento che suscitano è sviluppato, profondo, potente.
Ecco: leggere “Il mito della bellezza” di Naomi Wolf è proprio questo. 291 pagine di parole cesellate come fa un’artista, andando senza mezzi termini alla radice dei concetti. Alcune/i definiscono Wolf brutale, io preferisco pensare che non sbrodolare sia un preciso intento politico.
Leggere what would be masochism in a man has meant survival for a woman (ciò che per un uomo sarebbe masochismo è sopravvivenza per una donna) ti srotola lì di fronte agli occhi tanto. Tutto. Il Capitolo intitolato “Violenza” è un capolavoro di ricerca e narrazione.
Gli anni di dolorose cerette all’inguine anche in pieno inverno, le violenze ostetriche, la grassofobia. Tutto lì, a pochi centimetri dalla nostra faccia. Questa per me è vera potenza, fuoco vivo che non ha bisogno di altri accessori.
Una fissazione culturale per la magrezza femminile non è un’ossessione per la bellezza, è un’ossessione per l’obbedienza.
Capitolo “Fame”
La definizione di bello e sexy cambia costantemente per servire un ordine sociale.
Capitolo “Sesso”
E il capitolo sul tema religione, mamma mia. Per me il vero must di questo libro, al contempo inquietante e attualissimo, nonostante “Il mito della bellezza” sia stato pubblicato per la prima volta nel 1990.
C’è tutto: il nostro cuore, le nostre paure, i sacrifici, i sensi di colpa, il sentirci sempre giudicate sotto un microscopio. I silenzi, la pornografia, gli orgasmi mai arrivati e finti. Le mestruazioni. La masturbazione. La maternità. C’è tutto quanto ogni ragazzina al Mondo dovrebbe sapere, per costruire qualcosa di sé che prenda una strada divergente.
Da dove cominciare? Dall’essere senza vergogna. Dall’essere avide. Ricercare il piacere. Evitare il dolore. Indossare e toccare e mangiare e bere ciò che ci pare. Tollerare le scelte di altre donne. Ricercare il sesso che vogliamo e combattere fieramente contro il sesso che non vogliamo. Scegliere le nostre battaglie. (…) Cantare quella bellezza e ostentarla e mostrarla: nella politica della sensualità, il femminile è bellissimo. Una definizione di bellezza che ama le donne soppianta la disperazione con il gioco, il narcisismo con l’amor proprio, lo smembramento con la completezza, l’immobilità con l’azione. (…) La prossima fase del nostro movimento come donne, da sole e insieme ad altre, (…) dipende oggi da quel che decidiamo di vedere quando guardiamo lo specchio. Cosa vedremo?
Leggere “Il femminismo è per tutti” di bell hooks è stato fondamentale per la mia formazione di attivista, madre e professionista.
In questo libro, i percorsi di autocoscienza – peraltro già noti in Italia sin dai tempi dei Mitici Anni ’70 ad opera di figure cardine come Carla Lonzi – sono la base di un percorso di ripensamento della propria situazione famigliare e lavorativa in un’ottica di parità di genere. Si parte sempre da sé stesse per scardinare gli elementi di sessismo che abbiamo interiorizzato fin da quando eravamo piccole. Non ne abbiamo alcuna colpa. Oggi quei tratti li portiamo avanti senza nemmeno realizzarlo, e potremmo trasmetterli senza volerlo all’educazione di bambine e bambini.
Condivido con voi gli appunti su me stessa: sentitevi libere/i di condividere i vostri.
Usa il tuo cognome. Anche se sei sposata, usa il tuo cognome. E dallo alle tue figlie/i: si può fare.
Prendi spazio in casa. Non stare tanto tempo in cucina. Non sistemare la seconda televisione sfigata in cucina mentre quella faiga sta in salotto, e la guarda solo tuo marito per il calcio. Troppe volte, anche nelle nuove generazioni, si nota come a fine pasto le donne si alzino per sparecchiare mentre gli uomini si godono l’amaro. Bevi il dannato limoncello da seduta. O – meglio – bevilo mentre fai sparecchiare il tuo compagno/marito.
Se puoi, creati uno spazio tutto per te con una serratura per chiuderlo. Se non puoi, rivendica gli spazi della casa: il divano, il salotto. Il telecomando. Prendi il dannato telecomando e decidi tu cosa guardare la sera con la tua famiglia.
A parità di mansione, investi in una donna. Scegli dottoresse, avvocatesse, negozi gestiti da donne. E nel caso delle ginecologhe, controlla che non siano obiettrici: puoi farlo sulla mappa di Obiezione Respinta.
Alle feste di Natale o di compleanno, regala alternative femminili: libri, soprattutto.
Non commentare mai, per nessuna ragione, il corpo di un’altra donna. Neanche se va a Sanremo. Neanche se secondo il tuo personalissimo giudizio non è in salute. Non. Commentare. Mai. Un. Corpo. E già che ci sei, parti dal non giudicare male il tuo, di fisico.
Vuoi fare qualcosa? Vai al cinema da sola o prenota per una al ristorante. Vai da sola. Viaggia da sola.
Nota quando dici le parole scusa, disturbo, nel mio piccolo, pazienza. Nota a chi e quando dici queste parole. Nota quanto spesso le dici.
Vota. Sempre. A livello nazionale fino a quello locale e di quartiere. Dalla Sindaca/o alla/al rappresentante di classe.
Scegli. Anche al supermercato, anche la marca del sugo di pomodoro.
Non accettare subito un “no” (a meno che si tratti di rapporti con altre persone, situazioni nelle quali vanno rispettati e basta). Se puoi, trova altre strade. Trova altri modi per arrivarci.
Partecipa alle riunioni di condominio. Polemizza in modo costruttivo.
Al lavoro, presentati senza blocco note o penna e rifiutati di prendere gli appunti per tutte/i. Siediti davanti, al tavolo.
A meno che la situazione non lo richieda espressamente, usa un tono di voce alto. Alza la mano. Alzati in piedi.
Conta i soldi. Parla di soldi. Soprattutto alle tue figlie/i. Investi in banca e insegna alle tue figlie/i ad investire i primi stipendi.
Mi sono ritrovata spesso a riflettere su cosa è casa, e questa intervista me ne ha fatto ricordare il significato più profondo: accoglienza, educazione, strumenti, dialogo.
La Casa delle Donne di Torino risponde ancora oggi a domande che le donne in difficoltà si pongono, spesso senza trovare risposta nelle istituzioni.
Mara: Come nasce questo spazio, che ricordiamolo è in Via Vanchiglia 3 a Torino?
Patrizia Celotto: Il 24 Marzo 1979 cominciammo l’occupazione del manicomio di Via Giulio, durò 1 anno. Da allora l’ amministrazione comunale ci concesse questo spazio, in via Vanchiglia, grande e accogliente per tutte le attività in programma, nel quale nel 2016 siamo fortunatamente ritornate con la Federazione Laadan, dopo una parentesi di trent’anni nei quali la Casa delle Donne “abitò”, nello stesso palazzo, in spazi molto più piccoli. Nel 2020 è nata anche da qui la rete +di194voci.
Purtroppo non è sempre stato così facile. La Casa delle Donne è un luogo di storie che partono dal passato, dai gloriosi anni ’70 delle conquiste femministe in Italia. Un femminismo che a Torino è stato da un lato radicale, con i gruppi autonomi dell’autocoscienza, dall’altro – ovviamente vista la storia del territorio – sindacale e politico.
È una storia di sindacati, di dibattiti e sì, anche di politica. Una storia che andrebbe insegnata in tutti i licei e istituti tecnici. Una storia che, ad esempio, parte da un bel po’ di denti sanissimi e da un grande barattolo portato ad una riunione sindacale.
Carla Quaglino: Avevamo ottenuto da 15 giorni la Legge di Parità, parliamo del 1977. Abbiamo aspettato il primo giorno dopo la pubblicazione delle Legge, alle 7 del mattino in migliaia abbiamo riempito il cortile dell’Ufficio di Collocamento e abbiamo comunicato al Direttore che avremmo occupato l’edificio fino a quando non fossero state unificate le liste di disoccupazione, allora divise fra uomini e donne. Questo espediente forniva alle aziende un ottimo modo per discriminare le lavoratrici, perché era prassi chiedere avviamenti di soli uomini. L’Ufficio di Collocamento accettò di unificare le liste e le donne occuparono tutta la testa dell’ormai unica lista. Quel giorno stesso, si presentò subito l’occasione per sperimentare la novità: la FIAT aveva richiesto i nominativi di 300 persone. La lista unica era diventata tutta femminile, quindi agli uffici FIAT in Via Chiabrera si presentarono 300 lavoratrici, pronte per la consueta visita medica alla quale erano sottoposti tutti/e. Ci accorgemmo che qualcosa però non andava, queste lavoratrici venivano sistematicamente scartate per inabilità: l’azienda stava usando il pretesto di fantomatici denti guasti che avrebbero pregiudicato la produttività di queste donne. Immediatamente distribuimmo un volantino: “Le donne non sono cavalli”.
E quando si parla di aborto e Legge 194 la situazione diventa ancor più drammatica.
Carla Quaglino: I sindacati (Cgil e Uil) facevano assemblee nei luoghi di lavoro sul referendum per abrogare la Legge 194. C’erano rappresentanti della Casa delle Donne, dell’Intercategoriale Donne CGIL CISL e UIL, e rappresentanti del PC, del PSI e del Partito Radicale. Il “contraddittorio”, avveniva con i democristiani e il neonato Movimento per la vita. I conservatori e le conservatrici si presentavano con grossi barattoli di vetro contenenti feti in formalina, simili a quelli che si possono vedere al Museo Lombroso per capirci. Facevo tutta la riunione con questo spettacolo raccapricciante appoggiato al tavolo a fianco a me.
Mara: Restiamo sul tema aborto. La mia generazione di femministe chiede un ripensamento totale della Legge 194, di fatto ostaggio dell’obiezione di coscienza. Qual è la vostra opinione in merito?
Patrizia Celotto: Al tempo dell’approvazione della 194, si pensò che noi femministe avremmo mantenuto il controllo sui consultori con la nostra presenza, come nei consultori autogestiti: invece ha dilagato l’obiezione di coscienza e il movimento degli anti-abortisti è entrato nei consultori, favorito da provvedimenti come l’attuale Fondo Vita Nascente. Purtroppo, dal 1978 a oggi non si è mai potuta migliorare questa Legge, perché fin dalla sua emanazione è stato messo in discussione il principio fondamentale su cui si basa, il diritto di autodeterminazione di noi donne, diritto che abbiamo sempre dovuto difendere. Allora, con la Legge 194, abbiamo dovuto trovare un compromesso che salvasse vite di donne come noi, perché l’IVG fosse sicura e gratuita: in quegli anni si abortiva a migliaia in clandestinità, rischiando tutto su tavoli da cucina. Chi poteva permetterselo andava in Svizzera o in Inghilterra.
Carla Quaglino: La DC aveva al suo interno donne che erano disponibili a contrattare e con le quali era indispensabile trovare un compromesso: mi riferisco a Tina Anselmi e ad altre. Col senno di poi ci viene da dire che sarebbe stato opportuno fissare un termine all’esercizio dell’obiezione di coscienza. Oggi, per esempio, vincolerei con chiarezza l’obbligo di fornire IVG a chiunque si iscriva a ginecologia.
Mara: Veniamo alla situazione IVG in Piemonte, con la decisione di Marrone di destinare una valanga di soldi alle associazioni anti-abortiste attraverso Vita Nascente. Cosa farà la Casa delle Donne?
Carla Quaglino: Insieme alla Rete +di194voci chiederemo l’accesso agli atti per capire chi ha richiesto i finanziamenti del fondo. Poi faremo un monitoraggio di come saranno spesi i fondi stanziati. Non escludiamo l’intervento legale delle nostre avvocate.
A proposito delle compagne femministe torinesi Celotto scherza affettuosamente eravamo delle scappate di casa. E forse il senso sta proprio tutto qui: scappare da una casa nella quale le donne ci stanno con sofferenza, per costruirne una nuova. Una Casa delle Donne.
Ve lo dico subito: per me la risposta è no. Non fraintendetemi: resterò sempre convinta che ridurre il nostro impatto ambientale sia una buona prassi, per la vita e per il portafogli. Ma.
La maggior parte delle pratiche zerowaste coinvolge le donne. E non per aiutarle. Mi piacerebbe che le guru zerowaste (le più note sono donne) usassero la propria voce per rivendicare politiche di distribuzione dei doveri ambientali che coinvolgano da vicino multinazionali e governi, responsabili da soli di moltissime emissioni nocive e sprechi colossali. Mi piacerebbe vederle organizzare manifestazioni, e stare lì in prima fila con i loro bei cartelloni, a metterci la faccia di fronte alle forze dell’ordine schierate. Mi piacerebbe vedere che si fanno portavoce di iniziative internazionali, sapete quelle con tanto di discorsi pubblici e articoli di giornale in cui si chiede a McMaretta un impegno concreto nel riconvertire tutti i contenitori in plastica entro il duemilaventisubito.
Mi piacerebbe ma non è così. Al contrario, il movimento zerowaste è principalmente concentrato sullo sforzo della singola persona e sulle sue abitudini, che devono cambiare per trainare altre/i e cambiare il Mondo. Sul serio ci crediamo Batman? Sul serio mi state dicendo che se 1 milione di persone smette di comprare lo yogurt in vasetto di plastica allora va tutto bene?
E infatti tutto bene non va. Nel suo libro – un cult per il movimento – “Zero rifiuti in casa. 100 astuzie per alleggerirsi la vita e risparmiare”, l’esperta Bea Johnson elenca ciò che chiunque si sia mai avvicinato allo zerowaste conosce a menadito: risparmiare, riutilizzare, ridurre, riciclare, rifiutare. Ma di preciso cosa ci viene detto che dobbiamo “risparmiare, riutilizzare, ridurre, riciclare e rifiutare” per “alleggerire”? Prodotti di vita quotidiana che coinvolgono da vicino principalmente l’universo femminile.
Esempi? Una marea. Detersivi fatti in casa (da una donna – e hai voglia a grattugiare il sapone di marsiglia, sì l’ho fatto), prodotti alla spina (comprati, non certamente con risparmio, da una donna), assorbenti lavabili (da una donna), coppette da sostituire agli assorbenti esterni ed interni (con apprendimento a cura della donna in questione). Pannolini lavabili (da una madre). Cucina mi raccomando varia e vegetale (se diventassi vegana meglio, ma va beh ti perdoniamo solo perché siamo magnanime) però solo verdura e frutta del mercato di stagione biologica certificata e portandoti da casa la sportina in stoffa. Carne e pesce idem. Formaggi e yogurt neanche a parlarne. Pausa pranzo rigorosamente in baracchino, preparata (da una donna) a casa.
Come come? Lavori 8 ore al giorno, hai 2 figli in età scolare e il c***o di mercato c’è solo al mattino quindi non ci puoi andare? MALE. Molto male. Non ci credi abbastanza, non ci stai provando bene. Se volessi davvero, tutto è possibile. Guarda la Johnson: lei ha due figli ormai adolescenti ma suggerisce a te di non metterli proprio i pannolini ai pargoli, ché la Eliminazione Comunicazione si sa è praticissima per una mamma, visto che è solo una mucca e una lavandaia. Per fortuna ancora nessuna è arrivata a dire che le badanti che si occupano dei nostri anziani/e dovrebbero usare pannoloni da adulti lavabili: si vedrebbe troppo bene quanto classiste e maschiliste siano idee del genere.
E poi via. Tagliare. Minimalismo. Via tutto quel che riguarda, di nuovo casualmente, l’universo femminile della bellezza: cioè mi viene detto dalla società in cui sono immersa fino al collo che devo essere “presentabile” e “bella” ma poi qui mi si dice che la manicure no, la tinta se non è henné naturalissimo no, la lametta no a meno che non sia in metallo (scivolosa, costosa e taglientissima, per chi non l’avesse mai provata – io sì), ceretta no, il reggiseno no anche se poi devo andare in ufficio e non mi sento a mio agio. Come dentifricio una bella spruzzata di bicarbonato: se la dentista ti dice che è un filino aggressivo è solo una sporca venduta alle BigggFarma.
Spulciando il blog della giovane guru di turnotroverai 470 suggerimenti di bellezza zero-sprechi. Foto patinate bellissime, tanta luce naturale, verdi brillanti. Poi ti accorgerai che si tratta di una 30enne senza imperfezioni sul viso, senza problemi di acne né cicatrici né capelli bianchi, con un corpo magrissimo e super ultra conforme ai canoni di bellezza moderna. E d’un tratto sentirai quel sottile, impercettibile sex toy abilista in legno (sì, devi sostituire anche quello cosa credevi sporcacciona) che ti prende per il c**o.
Sui preservativi meglio che non mi esprimocome vorrei o mi denunciano. Perché se io leggo che siccome sono di plastica i preservativi meglio non usarli, che i “rimedi naturali” sono “meglio per te e per l’ambiente”, che è meglio prendere la pillola (scaricando di nuovo ogni onere sulle spalle di una donna) SBROCCO MALAMENTE.
Tutto questo suona giusto? Non hai ancora visto niente. Aspetta di trovarti in un negozio dell’usato per scegliere l’abbigliamento per i tuoi figli/e. Ah non c’è la misura? MALE. La città è piena di negozi second hand e tu non trovi il grembiulino verde a quadretti che chiede la scuola materna? Mettiti a cercare, e muoviti in bus anche se vieni da Frabosa Soprana con le sportine di stoffa mi raccomando: se no riparti dal via col +1 sul senso di colpa. E poi c’è il Natale, ORRORE DEGLI ORRORI: come diavolo farai a trovare il camper di Barbie usato? E le dannate piste delle Hot Wheels ce le avranno? Inutile cercare tra i consueti post della guru: lei figli/e non ne ha e vive a New York o in California, povera sfigata che non sei altro.
Bon, quest’anno Babbo Natale risolve facile. Un contenitore in vetro. Vuoto. Perché le brave bambine imparano il minimalismo sin da piccole. E via a salvare il Mondo, proprio come Batman, ancora solitarie e cariche, di responsabilità più che di regali.
Se avete letto Donne Difficili di Helen Lewis, saprete già che molte di coloro che hanno fatto la storia del femminismo sono state persone controverse, imprevedibili, in costante adattamento alle situazioni del loro tempo. In una parola, appunto, difficili. Impossibili da incasellare nel rassicurante ruolo dell’eroina senza macchia.
Nata a Perrero (Pinerolo) nel 1855, diventa la prima avvocata d’Italia: nel 1920 – dopo una lunga battaglia legale, costituzionale e sociale – è la prima donna ad iscriversi all’Albo degli Avvocati, requisito necessario per esercitare la professione. Tra la laurea in legge e questo decisivo traguardo, purtroppo arrivato tardivo quando era già sessantenne e in pensione, Lidia Poët costruisce una bellissima costellazione di attività che la vedono protagonista: è vicepresidente della sezione “Diritto” al Congresso Penitenziario Internazionale (Roma, 1883), tiene conferenze sulla posizione delle donne nella legge italiana (Parigi), fa parte del Consiglio Internazionale delle Donne e del Comitato Nazionale per il Diritto di Voto alle Donne (1945).
Ma, come abbiamo detto, è soprattutto una donna difficile che ho apprezzato. Ecco perché:
È ricca e si gode la vita, ma non vive in una bolla.
Il padre Giovanni fa il Sindaco, la madre proviene da un’agiata famiglia di proprietari terrieri. Va a teatro, frequenta l’aristocrazia piemontese, partecipa a balli circondata da scapoli appetibili. Frequenta salotti letterari a Torino, ha amicizie intellettuali tra le quali De Amicis. Tutto questo non le impedirà di avvicinarsi a soggetti socialmente deboli e in difficoltà, come giovani in povertà o carcerati, o di menzionare nei suoi scritti anche le donne invisibili che lavorano senza sosta nei campi, anzi: il contributo delle italiane di qualsiasi estrazione socio-economica lo sperimenta in prima persona quando si arruola come crocerossina durante la Prima Guerra Mondiale. Nel 1890 a San Pietroburgo espone soluzioni all’avanguardia per il problema carcerario: il quarto punto delle sue proposte consiste nelle “Domeniche dei prigionieri”, grazie alle quali vuole avvicinare i cittadini comuni ad una realtà sconosciuta.
Non si ferma ai “no” ed è strategica.
A 13 anni, Poët chiede ai genitori di poter frequentare il liceo ma il padre le nega il consenso. Allora accetta un piano B che le consente comunque di fare un passo in avanti nella propria istruzione: studia per diventare maestra, sbocco lavorativo tipico dell’epoca per le donne di talento ma comunque inserite in un contesto patriarcale. Ottenuto il diploma, convince la madre, rimasta vedova, a mandarla a studiare all’estero: ci riesce. Va in Svizzera, e a 18 anni sa già parlare 4 lingue. Si laurea in Legge all’Università di Torino, e la storia si ripete: le viene negato il diritto di iscriversi all’Albo degli Avvocati (quindi non può esercitare in prima persona la professione) ma lavora presso lo studio del fratello Enrico. Viene respinta da politici e colleghi misogini e allora cerca alleati/e: dal Senatore Bertea allo stesso Ordine degli Avvocati piemontese, da giornaliste femministe come Elisa Boschetti di Unione Femminile a ministri come Mortara. Agisce, contesta e ribatte punto su punto seguendo una sorta di mantra: se non è vietato allora è concesso, bisogna solo trovare il come.
È contraria al suffragio universale.
Alle condizioni del tempo, nelle quali troppe donne (e molti uomini) risultavano poco istruite se non analfabete, Poët ritiene che estendere il diritto di voto sia un errore. Prima bisogna affrontare una seria riforma dell’educazione femminile, che abbia come obiettivo anzitutto la parità tra uomini e donne, e lo sviluppo della capacità critica delle italiane.
Non si considera parte di una minoranza ma di una maggioranza femminile, che deve prendersi semplicemente ciò che le spetta.
All’Università un professore le chiede – chissà se per galanteria o paternalismo – se preferisce sedersi ad un banco a parte: risponde di no. Non rifugge mai il confronto con gli uomini della sua generazione: dai compagni di classe ai clienti dello studio che divide con il fratello. Rifiuta l’argomentazione della “protezione”, molto in voga nei dibattiti del suo tempo in merito ai diritti delle donne, semplicemente perché non si reputa né fragile né mancante di qualcosa. Anche quando vede sgretolarsi il progetto dell’avvocatura, non resta ferma nel rimpianto o nella rabbia ma prosegue con piani B e C sempre in linea con la propria ambizione e personalità. Essere una madamina valdese nubile e senza figli/e non le impedirà mai di andare alla ricerca dei risultati che desidera.
Il libro prende titolo da un episodio accaduto a Michela Murgia, scrittrice, durante il suo lavoro in Radio Capital, e da lì dipana una folta casistica di situazioni pratiche nelle quali alle donne viene intimato il silenzio. L’episodio scatenante vede protagonista Raffaele Morelli, psichiatra e scrittore, che in diretta radiofonica – incalzato da Murgia su alcune dichiarazioni misogine da lui rilasciate nei giorni precedenti – perde le staffe e inveisce con Zitta! Zitta e ascolta!.
Come molte donne purtroppo Murgia ricorda non solo come non fosse la prima volta che stai zitta le venisse intimato da soggetti sessisti ma anche come ognuna di noi sia in grado di richiamare facilmente a memoria almeno un paio di episodi simili, accaduti ad altre donne che conosciamo o seguiamo.
Politici, intellettuali, giornalisti, fino ad arrivare ai più vicini colleghi, amici, parenti. Compagni, mariti, figli. Padri. Insulti e stereotipi sessisti cadono a pioggia su donne di ogni età, estrazione sociale e professione, ed è per questo che trovo interessante il lavoro fatto da Murgia in questo libro: non tanto e non solo la ripetizione di parole tossiche e feroci (comunque importante, in termini di presa di coscienza condivisa) quanto una cassetta degli attrezzi fatta di strumenti, risposte pratiche argomentate.
Per ognuna delle 11 macro-categorie prese in considerazione dal libro, Murgia spacchetta i vuoi avere sempre ragione, gli eh allora le quote facciamole un po’ su tutto, i lei sì che è una vera donna, le volte in cui sui quotidiani una professionista che ottiene un successo viene nominata col nome di battesimo anziché col cognome, come fosse l’amica con la quale abbiamo confidenza. Gli esilaranti anche gli uomini subiscono le stesse discriminazioni. I mitici che palle non si può più dire niente, su cui sono stati scritti persino libri. I viscidi eh vedrai che appena trova il c***o si calma, che tanto ricordano la volgarità di un collega nei confronti di Greta Thunberg, collega che potrebbe essere suo padre per età e che quel giorno come massima azione a favore dell’ambiente avrà buttato la carta igienica nel cesso anziché fuori.
Un breviario, anzi – meglio – un vero vocabolario, da tenere in borsa, consultare all’occorrenza e infine imparare a memoria, per arrivare pronte con la prossima risposta e poi brindarci su. Facendo molto rumore, naturalmente.
Chi dice che le/gli zerowaster debbano necessariamente snobbare Amazon? Possiamo usarlo (non abusarne) a nostro favore, con criterio e senza sminuire i nostri valori.
Ecco cosa ho scoperto di interessante e come può esserti utile.
Vetrine digitali di negozi fisici e piccole imprese. Spesso i piccoli punti vendita (erboristerie, negozi di oggettistica e accessori, parafarmacie, librerie dell’usato, cartolerie) o le PMI delle più svariate categorie non dispongono di budget a sufficienza per mettere in piedi un ecommerce indipendente, perciò decidono di aprire una vetrina su Amazon. Facendo clic su Visita lo Store o – scrollando verso il basso nella pagina prodotto – su Venditore, puoi sempre scoprire da dove proviene quello che compri e scegliere consapevolmente.
Made in Italy. Se sei alla ricerca di idee regalo o alternative nazionali di prodotti che compri abitualmente, la vetrina Made in Italy di Amazon può aiutarti. Basta digitare Made in Italy nella barra di ricerca e selezionare la categoria desiderata. Sono disponibili anche i Percorsi Regionali: per ciascuna Regione d’Italia troverai eccellenze, idee regali ma anche prodotti di uso quotidiano. Qualche esempio per il Piemonte? Vini, liquori, gioielli d’artista e – che ve lo dico a fare – creme spalmabili dolci 😀
Tutti noi nella vita conosciamo una persona incredibilmente paziente.
Quella che fa le cose che vanno fatte, che ci ascolta quando siamo molesti e lamentosi, quella che stimiamo perché in fin dei conti non esiterebbe ad infilare un braccio in uno scarico intasato e puzzolente per fare un favore ad un amico: da questa semplice considerazione ha inizio la trama.
Per certi versi è la classica storia di redenzione – con il protagonista Ed sfigato e nevrotico che si ritrova senza lavoro e senza fidanzata – ma in questo caso pagina dopo pagina l’elemento buddista porta la narrazione su strade differenti e meno scontate, complicando piacevolmente non il linguaggio quanto i concetti. Al centro del twist c’è il personaggio di Geoff, buddista divorziato che non disdegna una birretta al pub: proprio quella persona paziente che, infilando quel braccio in un water scassato, mostra per primo al protagonista un nuovo modo di pensare al futuro e a sé stessi.
Ci sono storie per il cervello e storie per l’anima: in questo libro, l’autore riassume con efficacia entrambi gli obiettivi, rendendo i concetti buddisti alla portata di tutti (persino della “generazione Mtv”, come suggerisce la recensione dello Yoga Journal americano in quarta di copertina). Il precetto che mi è piaciuto di più è senza dubbio quello di Saggezza Coraggio Compassione – così immediato, e ciascuno di noi può relazionarvisi nella vita quotidiana – ma mi sono accorta che il libro era approdato all’animo quando, di fronte ad una rogna di lavoro, ho pensato Oh no, dai: sto lasciando che il mio Amico Maligno prenda il sopravvento.
Come unico spoiler vi lascio il (prevedibile) lieto fine, non senza un clamoroso colpo di scena, e giù di lì troverete anche la risposta alla domanda cruciale: ce la farà il nostro eroe a diventare uno scrittore? Quale eredità sarà riuscito a trasmettere l’amico Geoff?
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