Il fattaccio accade pochi giorni fa, chiacchierando con un’amica non autoctona. Mi ha fatto pensare a tutti gli stereotipi su Torino e i suoi abitanti.
Ahaha sei proprio piemunteis, neh!
Bello di pastiera, una domanda facile facile. Ma tu nella vita quotidiana le frasi le finisci sempre con sorbole? Non direi. Nell’intimità la tua fidanzata ti chiama Colosseo amoroso dudududadada? Non direi. Ecco,vedo che ci capiamo. Neh.
Poi c’è quella che beh i piemontesi alla fine sono un pò come i francesi. Come spiegarvelo? Tra piemontesi e francesi c’è la sottile differenza che passa tra Luciana Littizzetto e Laetitia Casta: giusto due tre dettagli. Il punto non è che noi femmine piemontesi non siamo super bone, ANZI. Ma siamo italiane. Nordiche, ma italiane. E questo basta a riassumere tutto.
Sei di Torino, bella città. Quindi lavori alla Fiat?
Come no, ovvio. Ogni giorno, a Torino, un lavoratore si alza e sa che dovrà correre in Fiat, altrimenti morirà.
Amici del bullone svitato, facciamo insieme un breve riassunto della questione. Sì, la Fiat è qua. Sì, mezza Torino over 70 ci ha lavorato. Tuttavia, non sappiamo più come dirvelo: il nostro core business NON è solo l’auto. Piuttosto il cioccolato, quello sì, diteci che ci sfondiamo tra bunet, bicerin, gianduiotti. Diteci che puzziamo perché nella bagna caoda c’è l’aglio. Diteci che ci ubriachiamo di aperitivi e flagellateci con il San Simone. Ma NO vi prego, in nome del sacro sterzo e per tutti i cric: Torino non è solo, non è più, uguale Fiat.
E sapete perché?
Perché sono arrivate le Olimpiadi Invernali di Torino 2006.
E ragazzi, se in quei giorni avete soggiornato per qualsivoglia motivo in città vi sarete accorti di quanto il cambiamento fosse tangibile.
Di quanto cittadini paludati fossero allibiti per l’amore dimostrato da canadesi, russi, statunitensi, australiani nei confronti di vie e piazze troppo spesso date per scontate.
Per esempio. Febbraio 2006. Un giorno passeggio per Via Roma e mi fermo a guardare una vetrina. Accanto a me la classica coppia di mezza età. Lei ha un cappotto maron e fissa una bella borsa, forse sperando che il marito legga nella sua mente e gliela regali. Lui camicia e cravatta, che mica vai in centro vestito da patelavache. Di fronte alla vetrina compaiono due biondi anzi no bianchi, alti anzi no enormi. Due che “nordici” è una definizione riduttiva, tanta è la svedesità che emanano da ogni poro. I due giovinastri sfoggiano pantaloncini corti e felpa leggera che manco un calorifero sotto le ascelle. Lei Ammi varda chiellì cum a l’è vestise (Oddio, guarda quel tipo come è vestito) Lui Umfh (Poi un giorno parliamo di quanto i maschi siano uguali in tutta Italia). Mentre lei scuote la testa sconsolata, Nordico 1 si avvicina con fare amichevole e chiede in inglese dov’è Piazza Castello.
E lì accade questa cosa che mi ha fatto sorridere al manichino in vetrina.
Lui, perfetto esempio di 60enne sabaudo, risponde in inglese con assoluta nonchalance che no, Piazza Castello è di là e se volete possiamo incamminarci insieme tanto andiamo anche noi in quella direzione.
Ma la vera perla, quella che racconta il DNA profondo del cambiamento, è la frase che Lui rivolge a Lei mentre si allontanano dalla vetrina: A l’a dime che Turin a l’è bela. Certo, lu savia! (Nordico 1 mi ha detto che Torino è bella. Certo, lo so!).
Insomma, da 6-7 anni a questa parte abbiamo cominciato un pò a tirarcela e la verità è che ci abbiamo preso gusto. Adesso i turisti vengono a Torino più consapevoli delle qualità da godersi: enogastronomia, innovazione tecnologica, ottima musica, bei musei, bravi designer.
E va a finire che noi stessi, gli indigeni, ci scopriamo turisti di una città proprio bella. Caspita, non l’avevamo mai detto ad alta voce.
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